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Tra storia e leggenda

L'etimologia più ovvia di Pratomagno rinvia alla morfologia del massiccio che chiude il Casentino verso ovest: un prato grande, o il prato maggiore fra tutti quelli che occupano i crinali e le cime dell'alta valle d'Arno.
Ma in passato qualcuno avrebbe voluto sostituire questo nome con un altro, legato ad avvenimenti leggendari. Ce lo ricorda, per esempio, il Contrasto di preminenza fra tre Paesi dì Toscana che sono il Valdarno di Sopra, il Casentino e il Mugello: un poemetto di novanta ottave scritto, tra il serio e il faceto, da uno che si firma Insigne Accademico Innominato, ma che in realtà corrisponde al noto avvocato Innocenzio Montini di Sarna, morto nel 1764 e sepolto alla Verna. Pubblicato, Con licenza de' Superiori, nella città di Firenze, dalla Stam - peria di Pietro Gaetano Viviani, l'anno MDCCLXI, oggi questo opuscolo in versi ha assunto il valore di documento storico. Avremo perciò occasione di citarlo altre volte, quando vorremo ricostruire il passato del Casentino. E lo citeremo con il titolo semplificato di Contrasto, cioè di dibattito fra tre popolani, che, trovatisi per caso proprio in vetta al Pratomagno, si sono confrontati nella celebrazione campanilistica delle valli confinanti da cui provenivano: il Valdarno, il Casentino, il Mugello.
Al momento di separarsi, i tre si salutano cordialmente. Il casentinese inizia il suo commiato con un complimento:
«Gioconda sempre a me di questo giorno fìa la memoria, e dell'amabil Prato
o Pianto Magno, e ovunque andrò dintorno, benché lontani, a me sarete allato...».

Il Pratomagno, dunque, una volta era chiamato anche (senti, senti!) Pianto Magno. Se l'esistenza di un nome così curioso è un dato di fatto, la spiegazione di quando e perché l'epiteto sia sorto non riesce a varcare i limiti delle ipotesi leggendarie.
Qualcuno ha messo in giro la storia di Totila che lassù, proprio in cima al massiccio da cui si domina gran parte della Toscana, si sarebbe ritirato a piangere sulla disfatta subita dal suo esercito nel fondo valle, presso Campaldino. Che nella ventennale disastrosa guerra greco - gotica (535 - 553), alla fine siano stati sconfitti prima Totila, poi, e definitivamente, Teia è notizia certa.
Ma più ancora di loro, dei Goti, altri avevano motivi molto seri per cercare rifugio sulle cime più impervie e piangersi addosso. Ricorda il testimone oculare Procopio di Cesarea, nella sua Guerra Cotica: «Dei Toscani quanti abitavano i monti macinavano ghiande di quercia come fossero grano e ne facevano pane, che poi mangiavano. Ne conseguiva che i più fossero colti da malattie d'ogni genere, e solo alcuni riuscirono a salvarsi». Tutto sommato quindi, erano i casentinesi stessi, prima ancora di Totila e della sua gente, a doversi disperare fino alle lacrime: intorno non vedevano che le tragiche conseguenze di flagelli tanto temuti, quali la guerra, la carestia, le epidemie. E intanto lo sconforto dell'asservimento imposto dai liberatori bizantini, in nulla migliori dei conquistatori goti, stava annullando in loro ogni voglia e qualsiasi capacità di reazione. C'era di che abbandonarsi a un pianto magno, a un pianto irrefrenabile e pubblico!

(da “Itinerari Casentinesi in altura” di Francesco Pasetto)